PENSIONI - DAL 1970 AGLI ANNI '80

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Gladiator Maximus
view post Posted on 17/10/2010, 20:55




Negli anni '70 e '80 la spesa pensionistica e previdenziale continuava l’inarrestabile espansione, sia per il succedersi di provvedimenti legislativi che aumentavano i livelli di tutela in generale, sia per il mutare della composizione per età della popolazione che rendeva sempre più anacronistici i limiti di età stabiliti nel 1939 (60 anni per gli uomini e 55 anni per le donne).

Oltre ai fattori citati (mancata correlazione tra contributi e prestazioni, eccesso di pensioni di invalidità e uso abnorme del sistema pensionistico per far fronte alle crisi e alla riconversione industriale con centinaia di migliaia di prepensionamenti), sull’espansione della spesa pensionistica hanno influito le cosiddette pensioni “baby”, erogate ai dipendenti pubblici che potevano così ottenere la prestazione dopo solo 19 anni e sei mesi di occupazione, ridotti a 14 anni e sei mesi per le donne coniugate. Sebbene i requisiti contributivi richiesti nel settore privato per l’accesso alla
pensione di anzianità fossero più elevati (35 anni di contributi) rispetto a quelli dei pubblici, le pensioni liquidate con notevole anticipo rispetto ai limiti stabiliti per l’età legale aumentavano a dispetto della demografia e degli standards degli altri Paesi industrializzati.

Alla fine degli anni ’70 la complessità e il disordine erano notevolmente aumentati specialmente a seguito dell’introduzione delle varie formule di indicizzazione (nel 1973 vengono indicizzate le pensioni sociali) mentre la crescita delle pensioni di invalidità aumentò l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil dell’1,3%. In pratica la pensione di invalidità diventava una forma di sostegno al reddito e alla disoccupazione soprattutto nelle zone depresse del Paese ed in particolare nel
mezzogiorno dove era erogata quasi esclusivamente in base ai fattori socio economici e non a quelli medico legali, e come sostegno alla vecchiaia per coloro che nell’intera vita lavorativa non avevano accumulato che poche contribuzioni tant’è che negli anni ’70, circa il 25% di invalidità veniva liquidato a soggetti che ormai avevano superato l’età pensionabile.
In questo periodo merita di essere ricordata la legge 20 marzo 1970, n.75, recante “Disposizioni sul riordino degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente”, che ha regolato lo stato giuridico ed il trattamento economico d’attività e di fine servizio del personale dipendente degli enti pubblici elencati dalla stessa legge, tra cui gli Enti che gestiscono forme obbligatorie di previdenza ed assistenza.

Alla luce di tutto ciò risultava evidente la necessità di una riforma complessiva del sistema pensionistico, peraltro sostenuta già prima della legge Brodolini. Tuttavia la politica non trovava il coraggio per attuare una riforma tesa a restringere la copertura sociale in un settore che investe la comunità nel suo intero e tranne l’ampio dibattito sul tema, supportato dai mass-media e dalla opinione pubblica, si andò avanti senza esiti apprezzabili per quindici anni; infatti il primo progetto di riforma, proposto dall'allora Ministro del Lavoro Scotti, risale all’ottobre 1978, ma il primo intervento strutturale, iniquo, a danno delle future generazioni, verrà attuato dal Governo Amato con il Decreto legislativo n.503 del 30 dicembre 1992. In realtà il disegno di legge Scotti non affrontava i problemi di contenimento della spesa pensionistica nella prospettiva di una modifica dei requisiti di accesso alle pensioni di vecchiaia o di anzianità o della formula di determinazione della misura delle pensioni, ma si poneva nella logica di eliminare le disparità e le situazioni di privilegio scaturenti dalla pluralità dei regimi
pensionistici esistenti.

Accanto al regime generale dei lavoratori dipendenti si affiancavano infatti nel settore privato regimi particolari sostitutivi tra i quali vanno ricordati quelli dei: a) lavoratori dipendenti dei servizi di telefonia; b) lavoratori dipendenti dell’ENEL e delle aziende private produttrici di elettricità; c) personale di volo dipendente di aziende di navigazione aerea; d) autoferrotranvieri; e) lavoratori dello spettacolo; f) giornalisti professionisti; g) dirigenti di aziende industriali. Anche nel settore pubblico esistevano regimi differenziati per gli impiegati civili e quelli militari dello Stato, per i dipendenti degli enti locali, per gli ufficiali giudiziari, per i sanitari ospedalieri. Fino al 1990 erano operativi anche i regimi esonerativi del regime generale costituiti presso aziende del credito.

La stessa frammentazione si riscontrava nel lavoro autonomo dove, oltre alle gestioni dei coltivatori diretti, artigiani e commercianti esistevano tante casse autonome per quanti erano liberi professionisti appartenenti agli ordini professionali. Questa suddivisione della tutela, con le relative differenziazioni di requisiti e rendimenti, ha giustificato la definizione di “giungla pensionistica”, il cui disboscamento si è reso necessario, non solo per ragioni di equità, ma anche per rimuovere le infondate ragioni di opposizione alla stessa riforma del regime generale. Questo primo progetto
benchè supportato dal parere favorevole del CNEL, non fu nemmeno discusso in Parlamento per la chiusura della legislatura avvenuta nel marzo 1979.

Il sistema pensionistico era stato oggetto di critiche severe nel corso degli anni e i punti più controversi, evidenziati nel 1981 dalla I° Commissione Castellino (Ministero del Tesoro), erano: a) l’età pensionabile; b) il collegamento percentuale alla retribuzione; c) la retribuzione pensionabile; d) la cumulabilità tra pensione ed altri redditi; e) la formula di indicizzazione.

Un capitolo a parte fu poi la legge 252 del 1974, detta Legge "Mosca" dal nome del suo promotore, Gaetano Mosca, originariamente deputato milanese del Partito Socialista molto vicino a Ernesto De Martino, poi passato alla Cgil quando la direzione del Psi decise che avrebbe dovuto prendere il posto del capo storico della corrente socialista all'interno del sindacato, Fernando Santi. Questa legge del 11 giugno 1974, ha concesso la possibilità di regolarizzare nell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e superstiti, nell'assicurazione contro la disoccupazione involontaria e nell'assicurazione contro la tubercolosi «i periodi di lavoro o di attività politico sindacale prestati alle dipendenze dei partiti politici rappresentati in Parlamento, delle organizzazioni sindacali, degli istituti di patronato e di assistenza sociale e delle associazioni nazionali di rappresentanza, assistenza e tutela dei movimento cooperativo»; nel nostro paese ci sono oltre 37.000 persone che hanno avuto benefìci ai fini pensionistici in ragione di detta legge nonostante che, quando detta legge fu varata, l'allora XIII Commissione permanente con apposita relazione prevedeva un carico di circa 3.000 domande. La legge nacque per sanare la situazione di un centinaio di persone che nei decenni successivi al dopoguerra avevano prestato la loro opera nei sindacati o nei partiti senza che a loro nome fossero stati versati i contributi all’Inps. La pratica andava per le spicce: bastava la semplice dichiarazione del rappresentante del partito o del sindacato e all’interessato veniva versata la pensione oltre naturalmente gli arretrati a partire dal 1948. Apriti cielo ! Via via prorogata (l’ultima proroga risale al 1980), della legge Mosca hanno finito per avvantaggiarsene qualcosa come 40mila persone. Con un costo per lo Stato e dunque per i contribuenti calcolato, per difetto, in 25mila miliardi di lire.

Nel decennio successivo al 1980 furono riproposti disegni di legge aventi ad oggetto il riordino dell’intero sistema, anch’essi, però, destinati al fallimento. Nel gennaio 1980 venne presentato un nuovo disegno di legge da Scotti, confermato Ministro del lavoro, che aveva ancora come obiettivo di fondo la progressiva unificazione dei regimi pensionistici. L’idea di unificare il sistema pensionistico ha dato vita ad un acceso dibattito tra le varie forze politiche e ha visto l’opposizione dei sostenitori del pluralismo previdenziale, tra i quali spiccava il nome del nuovo Ministro del
lavoro Di Gesi succeduto a Scotti.

Nel 1983 il Governo Craxi tentò di affrontare il problema ma il progetto approntato dal ministro del lavoro De Michelis venne respinto già in sede di presentazione in Consiglio dei Ministri nel luglio del 1984. Contemporaneamente alla Camera dei deputati venne insediata la Commissione Cristofori incaricata di predisporre un testo di riforma che però si protrasse senza esiti fino al 1987.

L’unico intervento specifico di grande rilevanza, realizzato in questo periodo, fu la riforma delle pensioni di invalidità, attuata con la legge n° 222 del giugno 1984 che ridusse tali prestazioni dall’abnorme numero di 5.200.000 del 1984 ai 2,5 milioni attuali (3,4 nel 1996). Le cause che avevano prodotto questo eccessivo numero di pensioni di invalidità sono diverse. In primo luogo la previsione legislativa che prevedeva l’erogazione di questa prestazione non solo, come avrebbe
dovuto essere, per problematiche di salute (fattori medico legali) ma anche in base a requisiti “socio ambientali” che consentivano anche ai soggetti non invalidi ma che avevano poche possibilità occupazionali a causa della precaria situazione economica delle aree territoriali in cui vivevano, di fruire di queste prestazioni. Questa situazione creò un grosso contenzioso legale poiché i soggetti ai quali veniva negata la prestazione si rivolgevano alla magistratura; nelle cosiddette zone depresse la pensione di invalidità diveniva così una impropria “forma di sostegno al reddito”. Inoltre la
pensione di invalidità era utilizzata anche in sostituzione della pensione di vecchiaia da quei lavoratori che con i loro contributi non raggiungevano i requisiti minimi per quest’ultima prestazione e quindi chiedevano l’invalidità per la quale erano sufficienti versamenti volontari e contribuzioni irrisorie; in questo modo anche molte casalinghe accedevano alla pensione. In questi anni vi fu un enorme incremento di pensioni di invalidità erogate a soggetti che avevano superato
l’età pensionabile.

La legge n° 222 abolì qualsiasi riferimento ai fattori socio economici e stabilì che ai fini della concessione della prestazione era rilevante solo la situazione sanitaria legata alla incapacità lavorativa del richiedente. la Commissione Cristofori Nel contempo maturava anche nell’opinione pubblica, la consapevolezza che il problema di fondonon era tanto quello, peraltro importante, dell’unificazione del sistema, (progetto Scotti) ma quello di più vasta portata del deficit strutturale complessivo prodotto principalmente dalla accelerata dinamica di invecchiamento della popolazione. Sia lo schema elaborato nel 1984 dalla Commissione Cristofori, sia le proposte formulate dalla maggior parte dei gruppi politici
mantenevano fermo, anche in prospettiva, il pluralismo gestionale indirizzandosi verso l'omogeneizzazione dei trattamenti e superando la precedente impostazione del disegno di legge Scotti alla quale, invece, rimaneva fedele il testo iniziale del gruppo comunista. In assenza di un progetto del Governo si era accesa una prima battaglia in Commissione sulla questione
dell'omogeneizzazione normativa e con l'opposizione dei gruppi comunista e socialista veniva stabilito che alcune categorie di lavoratori (magistrati, militari, giornalisti, dirigenti di azienda) rimanessero comunque estranee alle disposizioni della riforma non solo per gli aspetti gestionali, ma anche per quelli concernenti l'omogeneizzazione normativa, salvo il contributo di solidarietà.

Per tutti gli altri regimi speciali la Commissione Cristofori propose un impianto graduale di omogeneizzazione prevedendo che: a) i soggetti con più di 15 anni di iscrizione mantenevano le normative speciali in atto; b) i soggetti con meno di 15 anni di contribuzione erano assoggettati ad un doppio regime, quello speciale per gli anni già maturati, quello del regime generale per gli anni successivi mentre i nuovi iscritti, dopo l’entrata in vigore della legge sarebbero stati assoggettati
completamente alle norme del regime generale. Anche questa impostazione era contrastata dalle categorie interessate, in particolare dai pubblici dipendenti che, rifiutavano l'omogeneizzazione degli istituti normativi come in precedenza avevano rifiutata l'unificazione gestionale. Si riuscì a prevedere solo il contributo di solidarietà a carico delle gestioni sostitutive esclusive ed esonerative introdotto dall’art. 25 della legge 28 febbraio 1986, n° 41 (legge finanziaria per il
1986). In sede di prima applicazione la misura del contributo di solidarietà era stato stabilito al 2% dell'ammontare delle retribuzioni imponibili dei singoli ordinamenti pensionistici, che fu poi consistentemente ridotto con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° giugno 1989. In Commissione si erano profilate inoltre due posizioni estreme, l'una che prevedeva una sostanziale privatizzazione della previdenza, in contrasto con il dettato costituzionale e velleitaria sotto il profilo della fattibilità, l'altra di conferma integrale del sistema vigente. Alla fine sia la Commissione speciale, sia gli emendamenti presentati dal Governo avevano individuato nell'età di pensionamento e nel "tetto" delle prestazioni i punti di attacco per il riequilibrio del sistema.

Relativamente all'età pensionabile, la Commissione prevedeva: a) la parificazione tra uomini e donne, sia pure con larga gradualità, fissando a 60 anni l'età di pensionamento per tutti (l’emendamento governativo prevedeva i 65 anni per tutti entro il 2008) e incentivando il rinvio del pensionamento con un più elevato coefficiente di liquidazione (2,50% invece del 2%). b) Per quanto attiene al tetto entrambi i testi stabilivano l'equiparazione tra tetto imponibile e pensionabile,
prevedendone l'indicizzazione, da poco stabilita dalla legge n. 297/1982, non più al 100%, ma al 75%, con la conseguente riduzione nel lungo periodo della copertura assicurata dalla previdenza pubblica compensata dall’introduzione di forme di previdenza integrativa previste dagli emendamenti del Governo predisposti per la prima volta in modo così articolato.
Nelle discussioni sul progetto di riforma si sono inserite anche le questioni comunemente ricondotte al tema della distinzione tra assistenza e previdenza, anche se il problema in concreto affrontato era piu propriamente quello della trasparenza dei conti tra l'INPS e lo Stato3. Nel progetto di riforma, approvato in Commissione in sede referente, era prevista l'istituzione di una gestione degli interventi assistenziali e di sostegno a carico dello Stato, tra i quali l'intervento più significativo era l'assunzione di una quota dei trattamenti minimi mentre la proposta governativa, prevedeva la
rivalutazione del finanziamento della fascia sociale, confermando le disposizioni della legge finanziaria 1987. Il testo venne esaminato in Aula il 12 febbraio 1987 che attribuì alla Commissione la sede redigente per l'elaborazione del testo definitivo ma lo scioglimento anticipato della legislatura nella primavera del 1987 pose termine ad ogni ulteriore discussione.

Nel corso della decima legislatura non vennero presentate proposta di riforma generale ma furono approvate due leggi relative a materie connesse alla riforma: la legge 8 marzo 1989, n.88 di ristrutturazione dell'INPS che all'art. 37 stabiliva l'istituzione della GIAS (gestione per gli interventi assistenziali e di sostegno) e la legge 2 agosto 1990 n° 233 di riforma della previdenza dei lavoratori autonomi: artigiani, commercianti e coltivatori diretti. L'art. 37 della legge 88/89 non stabiliva una divisione netta tra assistenza a previdenza ma istituiva un “contenitore”, la Gias, per gli interventi dello Stato nel campo della protezione sociale generale creando tuttavia i presupposti per una successiva razionalizzazione del sistema e una maggiore trasparenza sulla copertura delle spese sociali a carico della fiscalità generale rispetto a quelle
coperte da contributi. La norma prevedeva quindi l’obbligo, tuttora vincolante nella redazione delle “leggi finanziarie”, della copertura di tutte le tipologie di spese al fine di mantenere sia l’equilibrio delle gestioni previdenziali.

Altra norma di rilievo approvata nel corso della decima legislatura è quella dell'art. 21 della legge n° 67/1988, sul tetto pensionistico che di fatto causò una battuta d’arresto sia nei flussi di finanziamento sia allo sviluppo delle previdenti forme di previdenza integrativa privata. La norma aveva rovesciato completamente l'impostazione dei precedenti progetti in quanto manteneva ferma l'imposizione contributiva sull'intero ammontare della retribuzione senza massimali, ed aveva abolito, invece, il massimale unico di retribuzione pensionabile per istituire una fascia di rendimenti decrescenti, mai inferiore comunque all'1% per ogni anno di assicurazione. La norma, approvata da una maggioranza vastissima, era stata proposta dallo stesso Ministro Formica, fornendo una anticipazione importante della linea ispiratrice della riforma generale che egli intendeva proporre. Peraltro gli studi delle commissioni istituite presso il Ministero del lavoro durante la gestione di Formica (1987-1989), anche se largamente conosciuti e discussi, non si concretizzarono in un testo formale4. I progetti elaborati da Formica non furono ripresi da Donat Cattin, Ministro in carica dal luglio 1989 che tuttavia presentò uno dei progetti di riforma più duri rispetto a quelli fin qui esaminati, incontrando, come sempre, l’opposizione dei sindacati; il progetto fu interrotto dalla dolorosa scomparsa del Ministro nella primavera del 1991.

Le proposte di Donat Cattin, abbandonando la linea moderata espressa da Formica, investivano per la prima volta il sistema di calcolo, riducendo la percentuale di rendimento annuo dal 2% all'l,75% per cui con una anzianità di 40 anni di contribuzione la pensione sarebbe stata pari al 70% della retribuzione pensionabile. Per compensare il calo del rendimento era prevista l'utilizzazione del TFR nell'ambito di una gestione integrativa obbligatoria, amministrata esclusivamente dall’INPS, annullando di fatto ogni prospettiva di previdenza integrativa su base contrattuale o volontaria. Inoltre il progetto prevedeva l’abrogazione, dopo un periodo transitorio, della pensione di anzianità, spostando da 35 a 40 anni il requisito contributivo.

La legge n° 233/1990 di riforma della previdenza pensionistica dei lavoratori autonomi approvata con il consenso di tutti i partiti, è l’ultimo provvedimento, di una lunga lista, redatto più per la cattura del consenso politico che non in base a seri calcoli attuariali. Questa legge di fatto equiparò la modalità di calcolo della pensione degli autonomi a quella dei lavoratori dipendenti anche se i versamenti dei primi erano enormemente inferiori a quelli dei secondi. Fino al luglio del 1990
l’Inps, erogava infatti ai lavoratori autonomi una prestazione pensionistica pari ad un importo minimo, indipendentemente dall’anzianità contributiva e dalla provenienza dei contributi. La nuova legge disponeva, con effetto dal 1 luglio 1990, che la misura dei trattamenti pensionistici venisse calcolata sulle contribuzioni versate dal 1982 in poi, applicando alla media dei redditi degli ultimi dieci anni (indipendentemente dai versamenti effettuati prima) o al minor numero di essi anteriori
alla decorrenza della pensione, un coefficiente di rivalutazione pari al 2% per anno di iscrizione, con un massimo di 40 anni per cui la misura massima della percentuale di commisurazione della pensione al reddito veniva fissata dalla legge nell’80%. L’impatto di questa riforma sul piano politico fu così forte da indurre il Ministro dell’Economia Guido Carli a minacciare le dimmissioni dal Governo. Le motivazioni alla base di tale decisione sono facilmente immaginabili se si pensa all’incremento degli importi delle pensioni derivante dall’adozione del nuovo metodo di calcolo e, conseguentemente, alla inevitabile crescita della spesa pubblica.

In queste condizioni si trovò il Paese all’alba del 1992 quando sia la crisi politico istituzionale creatasi con la cosiddetta “tangentopoli” sia la pesante crisi dei conti pubblici, decretò la fine delle “proposte” e delle discussioni e vide l’avvio delle grandi riforme del sistema previdenziale.

Edited by Gladiator Maximus - 15/6/2011, 22:29
 
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